Non
tutti lo sanno, anzi ormai saranno rimasti in pochi a ricordarlo, ma
gli alberi hanno anche loro delle compagne, che vengono chiamate le
albere. Io sono stata per l’appunto una di quelle, cresciuta da
sola in mezzo ad una distesa di prati e mentre crescevo donne, uomini
e bambini si sedevano appoggiandosi a me, quando il sole estivo
batteva forte, nelle pause della fienagione, cercando sotto le mie
fronde un po’ di refrigerio.
Per
secoli i falciatori e le loro famiglie arrivavano nei prati,
solitamente venivano proprio tutti, anche i bambini appena nati,
perché non restava nessuno a casa ad accudirli. Li avvolgevano in
una copertina e li deponevano tra le mie radici, affinché il sole
non li scottasse, ed intanto ci si preparava per le dure ore di
lavoro con il caldo che solo ogni tanto dava un po’ di tregua,
quando il vento si alzava e anch’io parevo tremare tutta, con le
mie foglie che, ballando tutte insieme, producevano un suono come di
acqua che scorre.
Era
bello per i falciatori sentire quel suono, voleva dire che il vento
stava arrivando a dare loro qualche attimo di frescura, che potevano
per un momento riposare. Allora tutto si falciava a mano.
Gli
uomini arrivavano con le falci e il porta cote agganciato ai
pantaloni, dove immergevano la lama della falce per renderla sempre
affilata al punto giusto grazie alla pietra che la restituiva
tagliente, le donne seguivano ammassando quando era ora l’erba con
i rastrelli, fino a formare lunghi cumuli pronti a seccare e a
trasformarsi in fieno. Ah, l’odore del fieno! Solo chi abita in
montagna o in campagna lo riconosce subito.
È
un odore difficile da definire, perché composto dei profumi, degli
odori, degli effluvi delle erbe aromatiche e dei fiori che la falce
toglieva al terreno e che venivano rilasciati nell’aria quando
quell’erba si era seccata. Quando si sentiva quella fragranza
voleva dire che l’estate era iniziata, perché i falciatori erano
già usciti per tagliare il primo fieno. La si sentiva ovunque,
perché allora erano molti i prati che i falciatori dovevano lavorare
e così l’erba mentre pian piano si seccava, si tramutava in un
profumo dolce e amaro al tempo stesso.
Chi
era più lontano da casa, per non dover rifare tutto il tragitto, si
portava il pranzo e allora le famiglie si sedevano sotto i miei rami
e tra un boccone e l’altro, asciugandosi il sudore della fronte e
le donne togliendosi il fazzoletto che le aveva riparate dalla
calura, si raccontavano storie, si rideva, a volte si stava solo in
silenzio ascoltando i piccoli rumori degli insetti, il volo di una
coccinella, il ronzio di un’ape, l'avanzare buffo e goffo di un
bombo o di uno di quei maggiolini verdi che sembrano smeraldi.
Intanto il caldo torrido finiva e quando i falciatori riprendevano il
lavoro faceva ancora caldo, ma non più il caldo opprimente di prima.
Ogni
tanto il vento arrivava ad accarezzarmi le foglie e allora tutti
udivano il canto dell’albera e restavano qualche istante a sentire
quella mia musica fatta di foglie che danzavano sui miei rami. Vedevo
anche le donne che, quando era il momento, in campi non lontani
tagliavano con il falcetto il grano, che poi veniva legato in grossi
covoni, o gli uomini che deviavano l’acqua di una canaletta per far
rinverdire i prati, a tutte le ore del giorno e della notte.
Allora
si dava grande importanza all’acqua e tutti coloro che falciavano i
prati potevano beneficiare della canaletta, spostandone leggermente
il corso, ma a turno e solo per un certo tempo stabilito. Guai a chi
cercava di fare il furbo e di sgarrare, i turni erano segnati con
perizia su un libretto e chi imbrogliava veniva subito scoperto. In
tal modo tutti i prati e i campi potevano diventare verdi e far
crescere quell'erba che poi faticosamente i falciatori tagliavano. La
fatica era la costante che vedevo sotto le mie chiome, ma una fatica
buona, che dava soddisfazione a chi lavorava e momenti di pausa che
rendevano bella anche la fatica.
Poi
tutto cambiò con l’arrivo delle macchine, che tagliavano da sole
il fieno, lo giravano, facevano da sole le balle che seccavano al
sole. Non occorreva più che tutta la famiglia partecipasse e in
pochi restavano a mangiare appoggiati al mio tronco, finché un
giorno non venne più nessuno. Più a nessuno interessava il fruscio
delle mie foglie, la sinfonia gioiosa che producevano.
E
venne anche il giorno in cui più nessuno si ricordò di quella
musica e nel giro di poche ore divenni legna da ardere. Mi schiantai
al suolo con un tonfo, mentre per l’ultima volta le mie foglie
suonavano e cantavano una triste melodia nel vento.